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4 Aprile 2024
15:00

Legittimo il licenziamento del dipendente che usa la banca dati dell’INPS per trarre informazioni personali di altri soggetti: lo ha stabilito la Cassazione

La Corte di cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza del 19 marzo 2024, n. 7272, ha rigettato il ricorso con cui un dipendente dell’INPS aveva contestato la decisione con cui veniva affermata la legittimità del suo licenziamento per aver effettuato numerosi accessi non autorizzati alla banca dati informatica dell’Istituto per trarre informazioni personali di altri soggetti. La Corte di cassazione ha infatti stabilito che sono legittimi i controlli difensivi del datore di lavoro se attuati a seguito del fondato sospetto di un comportamento illecito del lavoratore.

Legittimo il licenziamento del dipendente che usa la banca dati dell’INPS per trarre informazioni personali di altri soggetti: lo ha stabilito la Cassazione
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La Corte di cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza del 19 marzo 2024, n. 7272, ha rigettato il ricorso con cui un dipendente dell’INPS aveva contestato la decisione con cui veniva affermata la legittimità del suo licenziamento per aver effettuato numerosi accessi non autorizzati alla banca dati informatica dell’Istituto per trarre informazioni personali di altri soggetti.

La Corte di cassazione ha infatti stabilito che sono legittimi i controlli difensivi del datore di lavoro se attuati a seguito del fondato sospetto di un comportamento illecito del lavoratore.

Vediamo, in dettaglio, cosa ha stabilito la Cassazione.

I fatti di causa

Tizio veniva licenziato dall'I.N.P.S., nel settembre del 2020, all'esito di un procedimento disciplinare in occasione del quale gli venivano contestati numerosi accessi non autorizzati alla banca dati informatica dell'Istituto per trarre informazioni sui conti e sulle prestazioni previdenziali riguardanti una serie di persone.

Il lavoratore si rivolgeva al Tribunale di Ancona per contestare il licenziamento, ma la sua domanda veniva respinta.

Il lavoratore impugnava la sentenza di primo grado davanti alla Corte d'Appello di Ancona, la quale rigettava l'appello e confermava la decisione del Tribunale.

Contro la sentenza della Corte territoriale Tizio proponeva ricorso per cassazione.

La sentenza della Corte di cassazione

Per la Corte di cassazione, i motivi di ricorso sono tutti infondati.

In primo luogo, la Cassazione ha ricordato che in tema di controlli difensivi del datore di lavoro, la giurisprudenza si è fatta carico del problema di assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, e le imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, affermando, il principio in base al quale il controllo "difensivo in senso stretto" deve essere "mirato" ed "attuato ex post", ovvero "a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto".

Tizio era stato preventivamente informato "delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli" e gli accertamenti erano stati eseguiti solo ex post, ovvero dopo la segnalazione, da parte della "Direzione Centrale Risorse Umane I.N.P.S.", del numero anomalo di accessi informatici effettuati con le credenziali di Tizio.

I controlli automatici effettuati dall'I.N.P.S., ha sottolineato la Cassazione, da un lato “erano volti alla doverosa tutela di soggetti terzi (gli interessati, le cui informazioni personali sono inserite nella banca dati); dall'altro lato, non hanno comportato alcuna indagine sulle abitudini, sui gusti e sulle comunicazioni del lavoratore dipendente”.

Di conseguenza, “Non era quindi obbligatoria alcuna comunicazione preventiva al dipendente del fatto che l'I.N.P.S. esercita un doveroso controllo – non sull'operato dei propri dipendenti, ma – sulla regolarità degli accessi alla banca dati di cui è responsabile, né tale controllo rientra tra i controlli difensivi "in senso stretto", che il datore di lavoro può adottare a tutela dei propri "interessi e beni aziendali", alle condizioni indicate nella giurisprudenza citata”.

Quanto all'appropriatezza della sanzione espulsiva, per costante orientamento della stessa Corte, la "giusta causa" di licenziamento “integra una clausola generale che l'interprete deve concretizzare tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla normativa e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica, la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici (di recente: Cass. Civ. n. 7029/2023)”.

Con riguardo al caso di specie, “la Corte di merito nella valutazione della gravità dell'illecito e della proporzionalità della sanzione si è correttamente attenuta al rispetto dei criteri e principi desumibili dall'ordinamento generale in materia, a cominciare dai principi costituzionali, come interpretati dalla giurisprudenza di questa Corte, mentre il ricorrente contesta l'accertamento in fatto sulla cui base è stata effettuata la suddetta valutazione, accertamento che, come si è detto, è incensurabile in questa sede, essendo privo di mancanze qui rilevabili”.

Inoltre, “Questi stessi principi sono stati applicati nella richiamata Cass. Civ. n. 24119/2022, che ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione dell'I.N.P.S. contro una sentenza di merito che aveva considerato illegittima, perché non proporzionata, una sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per sei mesi, per mancanza dei presupposti di fatto e di diritto di tale sanzione (e, quindi, in applicazione dello stesso metodo qui seguito)”.

La Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento, in favore dell'I.N.P.S., delle spese relative al giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000, oltre a spese generali al 15%, Euro 200 per esborsi e accessori di legge.

Avvocato, laureata con lode in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Ho poi conseguito la specializzazione presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali, e sono stata collaboratrice della cattedra di diritto pubblico comparato. Sono autrice e coautrice di numerosi manuali, alcuni tra i più noti del diritto civile e amministrativo. Sono inoltre autrice di numerosi articoli giuridici, e ho esperienza pluriennale come membro di comitato di redazione. Per Lexplain sono editor per l'area "diritto" e per l'area "fisco". Sono mamma di due splendidi figli, Riccardo, che ha 17 anni e Angela, che ha 9 anni.
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