La Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, con sentenza del 18 marzo 2024, n. 7190 ha stabilito che estorcere le dimissioni a un lavoratore equivale a commettere un reato (quello di violenza privata) in contratto: di conseguenza, le dimissioni del lavoratore sono annullabili e non nulle.
Vediamo, in dettaglio, cosa ha stabilito la Cassazione.
I fatti di causa
Un lavoratore era stato costretto a presentare una lettera di dimissioni scritta sotto dettatura di due responsabili dell'azienda, i quali lo avevano minacciato, dicendogli che se non avesse presentato le dimissioni sarebbe incorso in conseguenze pregiudizievoli.
Il lavoratore aveva denunciato i fatti, ed era stato così aperto un procedimento penale per il delitto di estorsione in concorso (artt. 110 e 629 c.p.), nel quale si era costituito parte civile.
Il Tribunale di Ancona aveva dichiarato estinto il reato nei confronti di un imputato per morte del reo, aveva condannato l'altro imputato per il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone (art. 393 c.p.), e aveva dichiarato la società responsabile civile, con condanna al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale di € 20.000.
In sede di appello il fatto veniva riqualificato nel reato di violenza privata (art. 610 c.p.), e dichiarato estinto per prescrizione, ferme le statuizioni civili.
La Quinta Sezione Penale della Corte di cassazione dichiarava inammissibili i ricorsi dell'imputato e della parte civile.
Il G.D. rilevava che non ricorrevano i presupposti per la declaratoria di nullità del licenziamento, poiché bisognava semmai porsi il problema dell'annullabilità della dichiarazione di dimissioni per violenza.
La sentenza della Corte di cassazione
Per la Cassazione, i motivi di ricorso non sono fondati.
La Cassazione ha specificato che, come chiarito dalla giurisprudenza, “non è possibile individuare un automatismo tra nullità e atto di autonomia privata posto in essere in violazione di una norma penale; nella prospettiva del diritto civile, non è sufficiente, per aversi nullità del negozio, che sia sanzionata, anche penalmente, la condotta di colui o coloro che l'hanno posto in essere, dovendo farsi oggetto di verifica, piuttosto, le finalità perseguite e gli interessi tutelati dalla norma violata; l'individuazione del trattamento civilistico dell'atto negoziale che si confronti con una fattispecie di reato dipende dal rapporto che, di volta in volta, si abbia tra reato e contratto o negozio (Cass. n. 17959/2020, n. 26097/2016)”.
Quando vi è un collegamento tra un reato e una stipulazione negoziale, dunque, secondo la giurisprudenza, si è soliti distinguere l'ipotesi dei reati commessi nell'attività di conclusione di un contratto, cioè dei cd. "reati in contratto", e l'ipotesi dei reati che consistono nel concludere un determinato contratto, in sé vietato, cioè dei cd. "reati contratto".
Nel caso in cui la norma incriminatrice penale vieti la stipulazione del contratto, si è al cospetto del cd. "reato-contratto" (ad es. la vendita di sostanze stupefacenti); allorché, al contrario, la norma penale sanzioni la condotta posta in essere nella fase della stipulazione, rileva la categoria del cd. "reato in contratto" (ad esempio, l'estorsione ex art. 629 c.p.).
Se il contratto è vietato direttamente dalla norma penale, dunque, si può affermare la nullità dello stesso.
Il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è stato considerato, dunque, affetto da nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c. (Cass. n. 17568/2022, n. 17959/2020 cit.).
Diversamente, ha chiarito la Cassazione: “è stato affermato che le dimissioni del lavoratore rassegnate sotto minaccia di licenziamento sono annullabili per violenza morale, qualora venga accertata l'inesistenza del diritto del datore di lavoro di procedere al licenziamento per insussistenza dell'inadempimento addebitato al dipendente, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, il datore di lavoro, con la minaccia del licenziamento, persegua un risultato non raggiungibile con il legittimo esercizio del diritto di recesso (cfr. Cass. n. 41271/2021, n. 8298/2012, n. 24405/2008; cfr. anche, parallelamente, Cass. n. 18930/2016, sull'annullabilità del contratto concluso per effetto di truffa di uno dei contraenti in danno dell'altro, atteso che il dolo costitutivo di tale delitto non è ontologicamente diverso, neanche sotto il profilo dell'intensità, da quello che vizia il consenso negoziale)”.
E’ stato inoltre stabilito: “che la violenza morale esercitabile dal datore di lavoro, che può determinare l'annullabilità delle dimissioni rassegnate dal lavoratore, può esprimersi secondo modalità variabili e indefinite, anche non esplicite (ad es., può agire anche solo come concausa, ed essere ravvisata nella minaccia dell'esercizio di un diritto, quando la relativa prospettazione sia immotivata e strumentale – Cass. n. 24363/2010); e che le dimissioni rassegnate dal lavoratore sono annullabili per violenza morale ove siano determinate da una condotta intimidatoria, oggettivamente ingiusta, tale da costituire una decisiva coazione psicologica, risolvendosi il relativo accertamento da parte del giudice di merito in un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione se motivato in modo sufficiente e non contraddittorio (Cass. n. 16161/2015)”.
Nell’ambito del procedimento penale, la violenza esercitata nei confronti del lavoratore è stata definita nel secondo quale forma di violenza privata e “alla qualificazione in sede penale del comportamento del rappresentante del datore di lavoro” va ricollegata la ricorrenza, nel caso concreto, di “reato in contratto”, “determinante vizio del consenso per effetto di violenza morale su una delle parti del negozio”.
Le dimissioni, di conseguenza, sono annullabili e non nulle.
In conclusione, la Cassazione ha rigettato il primo e il sesto motivo di ricorso, e dichiarato assorbiti gli altri.