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2 Maggio 2024
13:00

Patto di non concorrenza nullo se vincolato solo alle scelte del datore di lavoro: di cosa si tratta

Tutte le clausole inserite nel patto di non concorrenza che rendano indeterminato il compenso e l’area geografica presso cui non operare sono inutilizzabili e rendono il patto nullo.

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Patto di non concorrenza nullo se vincolato solo alle scelte del datore di lavoro: di cosa si tratta
Dottoressa in Giurisprudenza
Patto di non concorrenza nullo se vincolato solo alle scelte del datore

Il patto di non concorrenza è l’accordo intrapreso tra il datore e il dipendente con il quale il primo si impegna a corrispondere una certa somma di denaro in cambio del fatto il secondo, una volta cessato il rapporto di lavoro, non intraprenda attività concorrenziali.

Secondo la Cassazione, tutte le clausole che rendano indeterminato il compenso e l’area geografica presso cui non operare sono inutilizzabili e rendono il patto di non concorrenza nullo.

Vediamo nel dettaglio cos’è il patto di non concorrenza e tutte le condizioni perchè sia valido.

Patto di non concorrenza con i dipendenti: cos'è e come funziona

L’art. 2125 descrive il patto di non concorrenza come quell’accordo con cui il datore di lavoro – sia che si tratti di una persona fisica che di una giuridica – limita lo svolgimento dell’attività del dipendente per un certo lasso di tempo dopo che sia cessato il rapporto tra loro.

Si tratta di un vero e proprio obbligo di non concorrenza a carico del dipendente una volta cessato il rapporto di lavoro, affinché si attenga al rispetto di un “non facere in proprio o alle dipendenze di altri, dietro il versamento di un compenso.

Il patto di non concorrenza può essere stipulato sia al momento dell’assunzione, sia nel corso del rapporto di lavoro dipendente, oppure al termine. E’ bene specificare però che si tratta di un accordo autonomo e distinto rispetto al contratto tra le parti e che nulla ha a che vedere con l’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.

Perchè stipulare un patto di non concorrenza? La ragione risiede nel fatto di voler impedire che informazioni, esperienze e know-how apprese nel corso del rapporto di lavoro cessato possano essere trasferite al di fuori e che, di riflesso, vengano utilizzate ai fini concorrenziali sul mercato.

Per questo motivo, poichè si tratta di un interesse legato in maniera predominante al datore, la valutazione del patto di non concorrenza è legato alle valutazioni individuali del dipendente: vale a dire all’autonomia contrattuale individuale.

Sarebbe illegittimo, infatti, un ipotetico CCNL in grado di incidere sulla libertà del dipendente, ovvero se intraprendere o rinunciare a un’attività di lavoro.

In ogni caso, l’obbligo di non concorrenza non può essere superiore a 5 anni (nel caso di dirigenti) oppure 3 anni (tutti gli altri dipendenti). Se viene viene pattuita una durata maggiore, essa deve essere rideterminata in questo modo.

Quando si considera nullo il patto di non concorrenza

L’art. 2125, comma 1, c.c. descrive tutti i casi in cui il patto di non concorrenza è nullo, ovvero:

  •  se non risulta da atto scritto;
  • se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro;
  • se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto;
  • non descrive la durata;
  • non delimita territorialmente l’obbligo non concorrenziale.

Il patto di non concorrenza non può impedire in maniera indeterminata qualsiasi attività di lavoro dell’ex dipendente, nè può imporre unilateralmente per il datore la possibilità di svincolarsi dallo stesso.

L’obbligo non concorrenziale infatti deve prevedere a favore del lavoratore un corrispettivo che, secondo giurisprudenza consolidata deve intendersi nullo il patto che prevede

“la pattuizione non solo di compensi meramente simbolici, ma anche di compensi manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue possibilità di guadagno, indipendentemente dall’utilità che il comportamento richiestogli rappresenti per il datore di lavoro, come del suo ipotetico valore di mercato”.

Veniamo adesso alla recente pronuncia della Corte di Cassazione.

Il fatto

Tizio, dipendente con mansioni di “private banker”, siglava un patto di non concorrenza che lo vincolava per 20 mesi dopo la cessazione del rapporto di lavoro a non svolgere alcuna attività concorrenziale con la banca presso cui era assunto.

All’interno del patto, veniva prevista una clausola secondo la quale, qualora fossero state modificate le mansioni del lavoratore in costanza del rapporto, la banca non sarebbe più stata tenuta al compenso e il dipendente, decorsi 12 mesi dall’inizio delle nuove mansioni, sarebbe stato libero dal “non facere”.

Ulteriormente, la banca fissava l’obbligo di “non facere” nell’area geografica della Regione X e a un altro ambito che si sarebbe riservata di definire una volta cessato il rapporto di lavoro.

Tizio decideva di rassegnare le dimissioni e, pochi giorni dopo, intraprendeva un rapporto di lavoro con mansioni analoghe alle precedenti.

La banca adiva in giudizio chiedendo la condanna del dipendente al risarcimento dei danni e la restituzione della prima rata del compenso già versata per il patto di non concorrenza siglato.

Sia in primo che in secondo grado la richiesta risarcitoria veniva rigettata poiché ritenuto nullo il patto di non concorrenza e la richiesta di restituzione della prima rata.

La decisione

La Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ordinanza 19 aprile 2024, n. 10679 si è pronunciata in materia di patto di non concorrenza e sua validità.

Secondo i Giudici, infatti, la delimitazione dell’area geografica e il corrispettivo versato al dipendente sono elementi che devono essere individuati “ex ante” poiché elementi essenziali che, in loro mancanza, impediscono al lavoratore di apprezzare l’entità del sacrificio a cui si obbliga con una nuova collocazione una volta cessato il rapporto di lavoro.

Il patto di non concorrenza deve ritenersi nullo ogni qualvolta viene previsto che, al mutamento delle mansioni cui è rimesso il dipendente, il datore si liberi dal pagamento del compenso pur rimanendo il lavoratore vincolato al rispetto di certe limitazioni.

Si tratta infatti di elementi di indeterminatezza sì gravi da travolgere l’intero patto di non concorrenza, poiché affetto da una condizione insanabile.

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Virginia Sacco
Dottoressa in Giurisprudenza
Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Napoli - Federico II, ho seguito le mie passioni specializzandomi prima in Intelligence istituzionale e, successivamente, in Diritto dell'Unione Europea. Nel corso degli anni ho preso parte a eventi, attività e progetti a livello europeo e internazionale, approfondendo i temi della cooperazione giudiziaria e del diritto penale internazionale. Su Lexplain scrivo di diritto con parole semplici e accessibili.
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