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4 Agosto 2023
11:00

La tipologia delle azioni dinanzi al giudice amministrativo

Il giudizio amministrativo, inizialmente concepito secondo il modello del processo impugnatorio, a seguito di una lunga evoluzione, si è trasformato in giudizio sul rapporto. Attualmente, nel Codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 204) sono previste le azioni costitutive, di accertamento e di condanna idonee a soddisfare in pieno la pretesa della parte vittoriosa.

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La tipologia delle azioni dinanzi al giudice amministrativo
Avvocato
le azioni del processo amministrativo

Il giudizio amministrativo è stato tradizionalmente concepito secondo il modello del processo impugnatorio. Nella legge 31 marzo 1889, n.5992, istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato, veniva infatti effettuato espresso riferimento al potere di annullamento del giudice amministrativo.

La tutela del privato al cospetto della pubblica amministrazione si risolveva, in sostanza, nella possibilità di contestare la legittimità di un provvedimento, mentre restavano prive di tutela tutta una serie di situazioni giuridiche che potevano prospettarsi nella pratica.

Questo tipo di concezione del giudizio amministrativo era strettamente legata alla considerazione dell’interesse legittimo quale posizione giuridica priva di valore sostanziale.

L’interesse legittimo era infatti considerato alla stregua di una posizione avente carattere meramente processuale, riflesso di un’antica concezione del rapporto tra amministrazione e cittadino.

Espressione di questa antica concezione era rappresentata dal dogma dell’irrisarcibilità dell’interesse legittimo, una preclusione infine ribaltata dalla Corte di cassazione con la nota sentenza pronunciata a Sezioni Unite, n.500/99.

L’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, negli anni successivi, ha condotto a un mutamento di prospettiva, che ha decretato il passaggio del giudizio amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto.

Attualmente il giudizio amministrativo non è più concepito sul modello esclusivamente impugnatorio, al contrario il giudice dispone di tutti gli strumenti necessari ad assicurare una tutela piena ed effettiva al privato, in omaggio a quanto previsto all’art. 24 della Costituzione e secondo quanto stabilito dalle norme di carattere sovranazionale.

Va infatti ricordato che nella Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, all’articolo 47, è espressamente sancito il diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale.

Viene cioè stabilito che: “Ogni individuo i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.

A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia”.

La stessa previsione è contenuta nell’art. 13 della CEDU ove è sancito il diritto a un ricorso effettivo: “Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

Il principio di effettività della tutela è strettamente legato al principio del giusto processo, di cui all’art. 111 della Costituzione.

Il diritto a un equo processo è richiamato, tra l’altro, all’art. 6 CEDU ove è stabilito che: “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.

In un contesto così delineato, non era pensabile che la posizione di interesse legittimo risultasse, in sostanza, sfornita di tutela.

Questa profonda consapevolezza ha condotto dottrina e giurisprudenza a fornire una lettura in senso evolutivo del dettato normativo.

Momento cruciale di questo lungo cammino è rappresentato dall’approvazione del Codice del processo amministrativo con Decreto Legislativo 2 luglio 2010, n.204.

Nella Relazione al Codice  https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/93385/Relazione+finale+al+codice.pdf/b9e63afa-797a-44e1-ee72-55cbf8142adf vengono delineati i principi tracciati con la delega all’articolo 44 della legge 19 giugno 2009, n. 69, volti a disciplinare il nuovo processo amministrativo.

Tra questi:

  • snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo e la piena garanzia del contraddittorio;
  • razionalizzazione dei termini processuali;
  • riordino delle norme vigenti sul riparto di giurisdizione.

Con il Codice del processo amministrativo, in omaggio a quanto stabilito con la legge delega, è stato delineato il nuovo volto del giudizio amministrativo, un giudizio volto ad assicurare una tutela piena alle posizioni di interesse legittimo (e, in particolari materie, di diritto soggettivo).

L’interesse legittimo, nella sua rinnovata natura sostanziale, è dunque quella posizione giuridica di vantaggio, collegata a un bene della vita, sulla quale incide l’esercizio del potere amministrativo.

Giudice naturale dell’interesse legittimo è il giudice amministrativo, il quale dispone di tutti gli strumenti utili ad assicurare al privato una tutela piena ed effettiva.

Principio di effettività e principio del giusto processo sono delineati ai sensi dell’art. 1 e 2 del Codice del processo amministrativo.

L’articolo 1, rubricato “Effettività” dispone che: “La giurisdizione amministrativa assicura una tutela  piena  ed effettiva  secondo  i  principi  della  Costituzione  e  del  diritto europeo”.

All’art. 2 del Codice del processo, rubricato: “Giusto processo” è inoltre stabilito che: “Il processo amministrativo  attua  i  principi  della  parità delle parti, del  contraddittorio  e  del  giusto  processo  previsto dall'articolo 111, primo comma, della Costituzione”.

Inoltre, al comma 2, è stabilito che: “Il giudice  amministrativo  e  le  parti  cooperano  per  la realizzazione della ragionevole durata del processo”.

Con la delega di cui all’art.44 l. n.69/2009 veniva dunque autorizzato il Governo a disciplinare le azioni del processo amministrativo.

Nel testo elaborato dalla Commissione presso il Consiglio di Stato, venivano previste, in omaggio a quanto stabilito con legge delega, pronunce dichiarative, costitutive e di condanna, idonee a realizzare una tutela piena ed effettiva.

Successivamente, le norme sull’azione di accertamento e sull’azione di adempimento sono state eliminate, ma il silenzio sul punto del Codice va letto alla luce del sistema tracciato nella sua interezza.

Sulla natura del complesso normativo approvato è intervenuto, infatti, il Consiglio di Stato, che con due sentenze rese in Adunanza Plenaria, la n.3 e la n.15 del 2011, ha tracciato coordinate ermeneutiche fondamentali, restituendo al processo amministrativo il suo nuovo volto: quello di giudizio equo, svolto dinanzi a un giudice imparziale, il quale gode di tutti gli strumenti necessari ad assicurare una tutela piena ed effettiva al privato.

L’ azione di annullamento

L’azione di annullamento è prevista dall’art. 29 del Codice del processo amministrativo ove è stabilito che: “L'azione di annullamento per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere si propone nel termine di decadenza di sessanta giorni”.

Viene disciplinata l’azione di annullamento nelle ipotesi in cui sia riscontrato uno dei vizi classici del provvedimento amministrativo, ovvero la violazione di legge, l’incompetenza o l’eccesso di potere.

Va notato che il termine decadenziale posto dal legislatore per la proposizione dell’azione di annullamento è di sessanta giorni.

Il Consiglio di Stato, con sentenza del 22 maggio 2023, n. 5044, ha stabilito che la responsabilità dell’amministrazione non consegue automaticamente all'annullamento del provvedimento amministrativo.

Occorre dunque la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, secondo un giudizio di regolarità causale, un pregiudizio collegabile alla determinazione contra ius, lesiva del bene della vita spettante alla parte ricorrente.

L’azione di condanna al risarcimento

A norma dell’art. 30 del Codice del processo amministrativo è disciplinata l'azione di condanna al risarcimento del danno.

La disciplina posta con il Codice del processo amministrativo è decisamente articolata.

Viene stabilito, in primo luogo, che l’azione di condanna può essere proposta  contestualmente ad altra azione o anche in via autonoma.

L’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto può derivare dall’illegittimo   esercizio dell'attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria.

In ipotesi in cui il giudice amministrativo decida in sede di giurisdizione esclusiva, il giudice amministrativo può disporre il risarcimento del danno anche dei diritti soggettivi.

Viene inoltre stabilito che, se sussistono i presupposti di cui all’art. 2058  del  Codice  civile,  può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.

Per il risarcimento dell'eventuale  danno  che  il  ricorrente provi di aver subito in  conseguenza dell'inosservanza  dolosa  o colposa del termine di conclusione del procedimento,  il  termine  di decadenza non decorre fintanto che perdura l'inadempimento.

Il termine inizia comunque a decorrere  dopo  un  anno dalla scadenza del termine per provvedere.

Qualora sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio  o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in  giudicato  della relativa sentenza.

Come si può ben vedere, la domanda di risarcimento è sottoposta a un termine decadenziale, essa infatti deve essere proposta entro il termine di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il  danno  deriva direttamente  da questo.

Una previsione importante riguarda la valutazione del risarcimento che deve compiere il giudice, in quanto viene stabilito che “Nel determinare il risarcimento il giudice  valuta  tutte  le circostanze di fatto e il comportamento complessivo  delle  parti  e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si  sarebbero  potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso  l'esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Sul punto appaiono illuminanti le riflessioni svolte dal Consiglio di Stato, con Adunanza Plenaria n.3 del 2011.

Ha affermato il Consiglio di Stato che tale disposizione, non evocando in maniera espressa il disposto dell’art. 1227, comma 2, del Codice civile, “afferma che l'omessa attivazione degli strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria diligenza. E tanto in una logica che vede l'omessa impugnazione non più come preclusione di rito ma come fatto da considerare in sede di merito ai fini del giudizio sulla sussistenza e consistenza del pregiudizio risarcibile”.

Molto interessanti le riflessioni svolte dall’Adunanza Plenaria, in quanto viene affermato che il legislatore ha preso in considerazione “l’ipotetica incidenza eziologica non solo della mancata impugnazione del provvedimento dannoso ma anche dell’omessa attivazione di altri rimedi potenzialmente idonei a evitare il danno”.

In sostanza, la parte deve aver attuato tutti gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, ad esempio proponendo ricorso amministrativo.

La previsione del termine decadenziale cui assoggettare la domanda di risarcimento del danno rappresenta un punto di equilibrio tra l’esigenza di sottoporre la domanda di risarcimento alla preventiva richiesta di annullamento del provvedimento illegittimo e la necessità di prevedere la percorribilità della strada dell’autonomia della domanda risarcitoria.

La previsione di un termine decadenziale, in sostanza, risponde all’esigenza di superare la pregiudiziale amministrativa, bilanciando questo tipo di scelta con altre esigenze da tutelare.

Sul punto sono illuminanti le riflessioni del Consiglio di Stato: “Dall’esame coordinato delle richiamate disposizioni si evince che il legislatore, se da un lato non ha recepito il modello della pregiudizialità processuale della domanda di annullamento rispetto a quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di apprezzare la rilevanza causale dell’omessa impugnazione tempestiva che abbia consentito la consolidazione dell’atto e dei suoi effetti dannosi.

In tal modo il codice ha suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando a una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico e astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento.E tanto sulla scorta di una soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità, della domanda avente a oggetto danni che l’impugnazione, se proposta nel termine di decadenza, avrebbe consentito di scongiurare”.

La previsione di un termine decadenziale alquanto stringente cui sottoporre la proposizione della domanda risarcitoria, nonostante le motivazioni delineate, ha destato qualche perplessità.

Tale termine decadenziale, secondo alcuni, sarebbe idoneo a ingenerare una disparità di trattamento tra la tutela dei diritti soggettivi, la cui tutela è soggetta a un termine prescrizionale decisamente più dilatato, e la tutela degli interessi legittimi.

La Corte Costituzionale si è pronunciata con sentenza n. 94 del 2017 in ordine alla previsione del termine decadenziale di centoventi giorni per la proposizione della domanda di risarcimento del danno.

La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dal Tar Piemonte in riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, 111, primo comma, 113, primo e secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e agli artt. 6 e 13 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Secondo il Tar Piemonte il legislatore avrebbe dovuto prevedere l’ordinario termine prescrizionale previsto per la lesione dei diritti soggettivi.

La Corte costituzionale ha ricordato che la norma sospettata di incostituzionalità rappresenta un compromesso sul tema della pregiudiziale amministrativa.

Per la Corte costituzionale, infatti, il danneggiato può scegliere se proporre l’azione di condanna in via autonoma ovvero proporla contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento illegittimo o successivamente al passaggio in giudicato della relativa sentenza.

La Corte ha affermato che il nuovo Codice, dunque,  adotta “un modello processuale che determina un significativo potenziamento della tutela, anche attraverso il riconoscimento di un’azione risarcitoria autonoma, con il conseguente abbandono del vincolo derivante dalla pregiudizialità amministrativa”.

Nel quadro complessivo tracciato dal legislatore, in sostanza, la tutela dell’interesse legittimo risulta incrementata.

Per la Corte non è fondata la censura di manifesta irragionevolezza, considerata l’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella configurazione degli istituti processuali.

La norma ha la finalità di realizzare un “coerente bilanciamento dell’interesse del danneggiato di vedersi riconosciuta la possibilità di agire anche a prescindere dalla domanda di annullamento (con eliminazione della regola della pregiudizialità), con l’obiettivo, di rilevante interesse pubblico, di pervenire in tempi brevi alla certezza del rapporto giuridico amministrativo, anche nella sua declinazione risarcitoria, secondo una logica di stabilità degli effetti giuridici ben conosciuta in rilevanti settori del diritto privato ove le aspirazioni risarcitorie si colleghino al non corretto esercizio del potere, specie nell’ambito di organizzazioni complesse e di esigenze di stabilità degli assetti economici (art. 2377, sesto comma, del codice civile)”.

Inoltre, ha chiarito la Corte, “Il bilanciamento operato risponde anche all’interesse, di rango costituzionale, di consolidare i bilanci delle pubbliche amministrazioni" (artt. 81, 97 e 119 Cost.) e di non esporli, a distanza rilevante di tempo, a continue modificazioni incidenti sulla coerenza e sull’efficacia dell’azione amministrativa”.

Allo stesso modo, per la Corte costituzionale, non è fondata la censura di violazione del principio di eguaglianza, poiché “la necessità che davanti al giudice amministrativo sia assicurata al cittadino la piena tutela, anche risarcitoria, avverso l’illegittimo esercizio della funzione pubblica (sentenze n. 191 del 2006 e n. 204 del 2004) non fa scaturire, come inevitabile corollario, che detta tutela debba essere del tutto analoga all’azione risarcitoria del danno da lesione di diritti soggettivi”.

Questo poiché, ha specificato la Corte, entrambe le posizioni giuridiche soggettive sono meritevoli di tutela, “ma non necessariamente della stessa tutela

Altresì infondate per la Corte costituzionale sono le censure di violazione degli artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e agli artt. 6 e 13 della Cedu, poiché il termine di centoventi giornidi per sé e in assenza di problemi legati alla conoscibilità dell’evento dannoso, non rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione”.

L’Azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione

Ai sensi dell’art. 31 del Codice del processo amministrativo viene disciplinata l’azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione.

Viene infatti stabilito che, decorsi  i  termini  per  la  conclusione  del   procedimento amministrativo, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere.

L'azione  può essere   proposta  fino a che  perdura l'inadempimento e, comunque, non oltre un  anno  dalla  scadenza  del termine  di  conclusione  del  procedimento.

Ai sensi dell’art. 117 del Codice del processo amministrativo è stabilito che:

Il ricorso avverso il silenzio è proposto, anche  senza  previa diffida, con atto  notificato  all'amministrazione  e  ad  almeno  un controinteressato nel termine di cui all'articolo 31, comma 2.

Il ricorso è deciso con sentenza in  forma  semplificata  e  in caso  di  totale  o   parziale   accoglimento   il   giudice   ordina all'amministrazione di provvedere entro un termine non superiore,  di norma, a trenta giorni.

Il giudice nomina, ove occorra, un commissario ad  acta  con  la sentenza con cui definisce il giudizio o successivamente  su  istanza della parte interessata.

Il giudice conosce di tutte  le  questioni  relative  all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi  comprese  quelle  inerenti agli atti del commissario.

Se nel corso del giudizio sopravviene il provvedimento espresso, o un atto connesso con  l'oggetto  della  controversia,  questo  può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l'intero giudizio prosegue con tale rito.

Se l'azione di risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 30, comma 4, è proposta congiuntamente  a  quella  di  cui  al  presente articolo, il giudice può definire  con  il  rito  camerale  l'azione avverso il silenzio e trattare  con  il  rito  ordinario  la  domanda risarcitoria.

Le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4 e  6,  si  applicano anche ai giudizi di impugnazione”.

Come si può dedurre dal testo normativo, si tratta di un'azione dichiarativa e di condanna.

Può essere chiesto, infatti, "l'accertamento dell'obbligo di provvedere della pubblica amministrazione" e il giudice, una volta accertato tale inadempimento "ordina all'amministrazione di provvedere" entro un termine di norma non superiore a trenta giorni.

Il Consiglio di Stato, con sentenza 1 aprile 2022, n. 2420 ha stabilito che: "Affinché possa configurarsi il silenzio inadempimento contestabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 2 L. n. 241 del 1990, 31 c.p.a. e 117 c.p.a., occorre infatti che sussista un obbligo di provvedere e che, decorso il termine di conclusione del procedimento, non sia stato assunto alcun provvedimento espresso, avendo tenuto l’Amministrazione procedente una condotta inerte. Ogniqualvolta la realizzazione della pretesa sostanziale vantata dal privato dipenda dall’intermediazione del pubblico potere, l’Amministrazione, in particolare, è tenuta ad assumere una decisione espressa, anche qualora si faccia questione di procedimenti a istanza di parte e l’organo procedente ravvisi ragioni ostative alla valutazione, nel merito, della relativa domanda: l’attuale formulazione dell’art. 2, comma 1, L. n. 241 del 1990, pure in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità … della domanda, impone l’adozione di un provvedimento espresso, consentendosi in tali ipotesi soltanto una sua redazione in forma semplificata, ma non giustificandosi una condotta meramente inerte".

Ha inoltre precisato il Consiglio di Stato, in ordine alla natura dell'azione avverso il silenzio: "In definitiva, l’azione avverso il silenzio assume una natura giuridica mista, tendendo ad ottenere sia l’accertamento dell'obbligo di definire il procedimento nel termine prescritto dalla disciplina di riferimento, sia la condanna della stessa Amministrazione inadempiente all'adozione di un provvedimento esplicito (con possibilità, altresì, di formulare in sede giurisdizionale un giudizio di spettanza del bene della vita agognato dal ricorrente, qualora si controverta in tema di azione vincolata ed emerga la fondatezza sostanziale della pretesa azionata in giudizio). Qualora le contestazioni del ricorrente non si riferiscano al mancato esercizio di un pubblico potere, ma a comportamenti inerti dell’Amministrazione, ostativi alla realizzazione di un interesse qualificato e differenziato direttamente riconosciuto direttamente dal dato positivo, senza la necessaria intermediazione amministrativa, l’azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. non può, invece, essere esercitata, non potendosi accertare l’inottemperanza a un obbligo (di conclusione del procedimento) inesistente, né potendosi disporre la condanna ad un facere provvedimentale, non rientrante tra le attribuzioni dell’Amministrazione intimata".

L’azione di nullità

Viene considerato nullo, ai sensi dell’art. 21 septies della legge n.241/90 il  provvedimento  amministrativo  che  manca  degli elementi  essenziali,  che  è  viziato  da   difetto   assoluto di attribuzione, che è stato adottato  in  violazione  o  elusione  del giudicato, nonché negli  altri  casi  espressamente  previsti  dalla legge.

L’azione di nullità è disciplinata espressamente all’art. 31, comma 4, c.p.a. ove è stabilito che: “La domanda  volta  all'accertamento delle  nullità  previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza  di  centottanta giorni”.

Viene inoltre stabilito che: “La nullità dell'atto può sempre essere opposta dalla  parte resistente o essere rilevata d'ufficio dal giudice”.

L’azione di condanna atipica

Nonostante non sia presente un riferimento espresso all’azione di condanna atipica nel Codice del processo amministrativo, in giurisprudenza il fondamento di tale azione è stato rinvenuto nella norma di cui all’art. 34, comma 1 lett. c) ove è stabilito che in caso di accoglimento del ricorso, il giudice, nei limiti della domanda: “condanna al pagamento di una somma di denaro, anche  a  titolo di  risarcimento  del  danno,  all'adozione  delle  misure  idonee  a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta  in  giudizio  e dispone  misure  di  risarcimento  in  forma   specifica ai   sensi dell'articolo 2058 del codice civile”.

Il riferimento alle "misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio" fonda dunque la possibilità di prevedere un’azione di condanna atipica.

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con sentenze n.3 e n.15 del 2011 rese in Adunanza Plenaria.

Con sentenza n.3 del 2011, in particolare, ha stabilito il Consiglio di Stato che: “Deve, inoltre, rilevarsi che il legislatore, sia pure in maniera non esplicita, ha ritenuto esperibile, anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto e sempre che non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica, l’azione di condanna volta ad ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto. Ciò è desumibile dal combinato disposto dell’art. 30, comma 1, che fa riferimento all’azione di condanna senza una tipizzazione dei relativi contenuti (sull’atipicità di detta azione si sofferma la relazione governativa di accompagnamento al codice) e dell’art. 34, comma 1, lett. c), ove si stabilisce che la sentenza di condanna deve prescrivere l’adozione di misure idonee a tutelare la situazione soggettiva dedotta in giudizio (cfr., già con riguardo al quadro normativo anteriore, Cons. Stato, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139; 9 febbraio 2009, n. 717).In definitiva, il disegno codicistico, in coerenza con il criterio di delega fissato dall’art. 44, comma 2, lettera b, n. 4, della legge 18 giugno 2009, n. 69, ha superato la tradizionale limitazione della tutela dell’interesse legittimo al solo modello impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa”.

L’azione di accertamento atipica

In coerenza con l’evoluzione normativa e giurisprudenziale tracciata, l’Adunanza Plenaria, con sentenza n.15 del 2011 ha effettuato un ulteriore passo in avanti, riconoscendo l’esistenza di una azione di accertamento atipica anche in assenza di una previsione legislativa espressa quante volte, “detta tecnica di tutela sia l’unica idonea a garantire una protezione adeguata ed immediata dell’interesse legittimo”.

Ha infatti chiarito il Consiglio di Stato che: “Nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata a un bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’azione generale di accertamento non precluda la praticabilità di una tecnica di tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalle azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo (artt. 24, 103 e 113)”.

Ha infatti precisato il Consiglio di Stato che “Anche per gli interessi legittimi, infatti, come pacificamente ritenuto nel processo civile per i diritti soggettivi, la garanzia costituzionale impone di riconoscere l'esperibilità dell'azione di accertamento autonomo, con particolare riguardo a tutti i casi in cui, mancando il provvedimento da impugnare, una simile azione risulti indispensabile per la soddisfazione concreta della pretesa sostanziale del ricorrente. A tale risultato non può del resto opporsi il principio di tipicità delle azioni, in quanto corollario indefettibile dell'effettività della tutela è proprio il principio della atipicità delle forme di tutela”.

L’Adunanza Plenaria ha individuato le coordinate ermeneutiche volte a suffragare la tesi sostenuta.

Secondo il Consiglio di Stato, invero “La soluzione è suffragata anche da un’interpretazione sistematica delle norme dettate dal codice del processo amministrativo che, pur difettando di una disposizione generale sull’azione di mero accertamento, prevedono la definizione del giudizio con sentenza di merito puramente dichiarativa agli artt. 31, comma 4 (sentenza dichiarativa della nullità), 34, comma 3 (sentenza dichiarativa dell’illegittimità quante volte sia venuto meno l’interesse all’annullamento e persista l’interesse al risarcimento), 34, comma 5 (sentenza di merito dichiarativa della cessazione della materia del contendere), 114, comma 4, lett. b (sentenza dichiarativa della nullità degli atti adottati in violazione od elusione del giudicato)”.

Per il Consiglio di Stato, l’ammissibilità di un’azione di accertamento atipica va dedotta, in particolare, dall’art. 34, comma 2, del codice del processo amministrativo, secondo cui “in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

Questa disposizione “che riproduce l’identica formulazione contenuta nella soppressa norma del testo approvato dalla Commissione del  Consiglio di Stato, dedicata all’azione generale di accertamento, vuole evitare, in omaggio al principio di separazione dei poteri, che il giudice si sostituisca alla pubblica amministrazione esercitando una cognizione diretta di rapporti amministrativi non ancora sottoposti al vaglio della stessa. Detta disposizione non può che operare per l’azione di accertamento, per sua natura caratterizzata da tale rischio di indebita ingerenza, visto che le altre azioni tipizzate dal codice sono per definizione dirette a contestare l’intervenuto esercizio (od omesso esercizio) del potere amministrativo”.

Il rito in materia di accesso ai documenti amministrativi (art. 116 c.p.a.)

L'accesso agli atti è disciplinato dalla legge n.241/90.

Per una ricostruzione generale dell'istituto in esame si rinvia al seguente articolo https://www.lexplain.it/definizioni-e-principi-in-materia-di-accesso-art-22-legge-241-90/.

Per una ricostruzione delle modalità di esercizio del diritto di accesso e delle varie forme di tutela di cui gode il privato si rinvia al seguente articolo: https://www.lexplain.it/modalita-di-esercizio-del-diritto-di-accesso-e-ricorsi-art-25-legge-241-90/.

Nel Codice del processo amministrativo è espressamente disciplinato il rito in materia di accesso ai documenti amministrativi.

Di seguito, si riporta il contenuto dell'art. 116 del Codice del processo amministrativo:

Art. 116. Rito in materia di accesso ai documenti amministrativi 

Contro le determinazioni e contro il silenzio sulle  istanze  di accesso ai documenti amministrativi, nonché  per  la  tutela  del diritto di accesso civico connessa all'inadempimento  degli  obblighi di trasparenza, il ricorso è proposto  entro  trenta  giorni  dalla conoscenza della determinazione  impugnata  o  dalla  formazione  del silenzio, mediante notificazione all'amministrazione e ad  almeno  un controinteressato. Si  applica  l'articolo  49.  Il  termine  per  la proposizione di ricorsi incidentali o motivi aggiunti  è di  trenta giorni.

In pendenza di un  giudizio  cui  la  richiesta  di  accesso  è connessa, il ricorso di cui al  comma  1  può essere  proposto  con istanza  depositata  presso  la  segreteria  della  sezione  cui  è assegnato    il    ricorso    principale,    previa     notificazione all'amministrazione e agli eventuali controinteressati. L'istanza  è decisa con ordinanza separatamente dal  giudizio  principale,  ovvero con la sentenza che definisce il giudizio.

L'amministrazione può essere  rappresentata  e  difesa  da  un proprio dipendente a ciò autorizzato.

Il  giudice  decide  con  sentenza   in   forma   semplificata; sussistendone i presupposti, ordina l'esibizione e,  ove  previsto, la pubblicazione dei documenti  richiesti,  entro  un  termine  non superiore, di norma, a  trenta  giorni,  dettando,  ove  occorra,  le relative modalità.

Le disposizioni di cui al presente articolo si  applicano  anche ai giudizi di impugnazione”.

Il rito previsto in tema di accesso gli atti, come si può ben vedere, è un rito semplificato. Le controversie relative all'accesso ai documenti amministrativi sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Se sussistono i presupposti il giudice ordina l’esibizione e la pubblicazione dei documenti richiesti entro trenta giorni.

L’azione può essere proposta sia nell’ipotesi in cui vengano assunte determinazioni da parte dell’amministrazione che si vogliono contestare, sia nell’ipotesi in cui l’amministrazione resti in silenzio.

Avvocato, laureata con lode in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Ho poi conseguito la specializzazione presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali, e sono stata collaboratrice della cattedra di diritto pubblico comparato. Sono autrice e coautrice di numerosi manuali, alcuni tra i più noti del diritto civile e amministrativo. Sono inoltre autrice di numerosi articoli giuridici, e ho esperienza pluriennale come membro di comitato di redazione. Per Lexplain sono editor per l'area "diritto" e per l'area "fisco". Sono mamma di due splendidi figli, Riccardo, che ha 17 anni e Angela, che ha 9 anni.
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